La scrittura è un atto di resistenza e di cedimento insieme. Non somiglia alla costruzione solida di un edificio, ma al suo continuo scricchiolare: ciò che tiene in piedi è proprio il tremore, la crepa, il legno che geme e non cede. È lì che abita la mia frase: non si arresta, non si misura, non si arrende al silenzio del punto. Scivola oltre, corre, inciampa, si rialza, e nell’inciampare apre abissi. Non si tratta soltanto di raccontare una storia — non sarebbe mai bastato — ma di lasciare che la voce si frammenti, che il respiro si affanni, che il lettore non possa mai sedersi comodo. La lingua non consola, inquieta. Eppure è proprio in quell’inquietudine che germina la vita, come se la verità fosse custodita non nella quiete, ma nel continuo vacillare.
Scrivere è stata per me una scelta che non ho scelto. Sessant’anni di esitazioni, di tentativi abortiti, di fogli rimasti intatti, di frasi annotate su biglietti del treno e subito cancellate dalla luce del giorno. Sessant’anni di pensieri che prendevano corpo solo per disfarsi, come se la scrittura fosse sempre rimandabile, sempre rimessa a un domani più stabile, più giusto, più “meritato”. Ma quel domani non arrivava mai. È arrivata invece l’urgenza, l’impossibilità di rimandare ancora. Non so dire perché adesso, non so dire perché non prima: forse perché la scrittura non appartiene alla volontà, ma alla resistenza, al cedimento improvviso.
E così la mia frase è figlia di questa tensione: non levigata, non pacificata. Si contorce, si trattiene, accumula fino a diventare ansiosa, eppure continua, come un respiro che non vuole spegnersi. È una lingua che porta addosso l’eco di ciò che non è stato scritto, il peso di tutto ciò che ho rinviato. Ogni parola contiene il silenzio che l’ha preceduta.
Ho passato la vita a pensare che un giorno avrei scritto. Oggi mi accorgo che, in fondo, non ho mai fatto altro: scrivere senza carta, scrivere senza prove, accumulare dentro di me pagine invisibili, lasciarle respirare e morire, voci sovrapposte, dialoghi interrotti, scene mai compiute. Forse tutto questo era già scrittura. Forse non si trattava di preparazione, ma di un modo segreto di vivere. E allora il libro non è un inizio, ma una tardiva confessione: un rifugio costruito con il materiale fragile di una vita intera, che solo alla fine si è deciso a farsi visibile.
Leggermi, allora, è un gesto che non cerco e non respingo. Non mi interessa come azione di mercato — non mi interesserà mai — perché non penso alla scrittura come a un mestiere che si misura in copie, scaffali, recensioni. Quello che mi interessa davvero è il ritorno della mia voce attraverso un’altra coscienza: il feedback, la risonanza, lo specchio inatteso che un lettore può offrire alla mia frase, smontandola, riportandola a me diversa, più vera o più fragile. Pubblicare un giorno — se accadrà, se me lo sarò meritato — sarà forse un piacere: non per “esserci” ma per poter moltiplicare questi specchi, raccogliere sguardi che mi costringano ancora a scrivere, a riscrivere. Come essere che scrive non desidero un mercato, ma mi farebbe piacere un’eco.